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I migranti al tempo della crisi
Categories: migranti

La crisi, nata come finanziaria e
divenuta poi economica, colpisce i soggetti più socialmente ed economicamente
deboli. Tra di essi donne e uomini, decine di migliaia di operai licenziati o
parcheggiati in cassa integrazione, i precari delle cooperative, gli studenti,
i ricercatori, gli stagisti, i lavoratori a progetto il popolo delle partite
IVA, gli anziani della minima.

Le donne, che già nei momenti
“normali”, non di crisi, sono fortemente discriminate nel mondo del lavoro in
quanto percepiscono redditi diversi a parità di prestazioni, hanno più
difficoltà di accesso e di sviluppo di carriera, e devono dividersi tra il
lavoro sfruttato e lo sfruttamento del lavoro domestico.

 

 Il nostro tempo è segnato da una deriva
sicuritaria bipartisan che sfrutta ma anche crea il sentimento di insicurezza e
le paure dei cittadini per ottenere consensi elettorali, alla lista dei
soggetti colpiti, dei corpi merce, vanno aggiunti quelli delle cittadine e dei
cittadini stranieri che decidono di venire a vivere nel nostro paese.

Le cause che spingono queste
persone a lasciare la propria terra, i propri affetti e il proprio stile di
vita sono da ricercarsi nelle guerre, nella povertà, nelle dittature
sanguinarie che spesso vigono nei loro paesi, nella ricerca della realizzazioni
dei propri progetti di vita, del sogno di migliorare le proprie condizioni di
vita, molto spesso attratti dall’immagine che diamo di noi attraverso i media
mainstream.

 

Ad accoglierli in Italia c’è un
apparato normativo altamente repressivo e un clima culturale che sembra
alimentarsi di odio razziale. L’ultimo pacchetto sicurezza, ciliegina sulla
torta di un percorso iniziato dal centro sinistra con la legge Turco Napolitano
che ideò i CPT, ora divenuti CIE (centri di identificazione ed espulsione), racchiude
in sé entrambi questi aspetti.

In primis l’ultima legge
inserisce la così detta “aggravante di clandestinità”. Per la prima volta nel
panorama giuridico italiano un identico reato viene punito in modo diverso a
seconda di chi lo commette: se questo è uno straniero irregolare la pena viene
aumentata di un terzo. L’aggravio di pena non è quindi legato alla condotta
tenuta, ma unicamente alla condizione personale del soggetto, al suo essere e
non al suo fare. La creazione di una norma di questo tipo crea un pericoloso
precedente nel nostro apparato legislativo: se ad essere colpiti ora sono le/i
migranti, che meglio si prestano alla criminalizzazione, chissà un domani quale
altra categoria di cittadini verrà esposta a questo tipo di discriminazione.

 

L’altra norma introdotta dal
pacchetto sicurezza che merita attenzione riguarda il “reato di immigrazione
clandestina”. Sempre premettendo che chi viene in Italia non lo fa quasi mai
per libera scelta ma il più delle volte perché è costretto a scappare da condizioni
di vita sfavorevoli con il sogno di darsi una prospettiva di vita migliore, non
è degno di un paese civile e democratico- come l’Italia si proclama- il mettere
in carcere chi non ha un documento che regola l’ingresso o la permanenza sul
territorio, ovvero chi non commette alcun reato, ma esercita unicamente il
proprio diritto alla mobilità.

Questa norma incide profondamente
sul clima di totale sospetto nei loro confronti che le/i migranti sono
costretti a vivere quotidianamente sulla loro pelle: esso è alimentato dai
media e dai discorsi politici in particolare, e li obbliga a guardarsi le
spalle in ogni momento della loro esistenza, già profondamente segnata da
scelte di vita difficili.

La possibilità di essere
denunciati perfino quando richiedono cure sanitarie, ovvero quando esigono che
venga tutelato il loro diritto alla salute (che è di tutte le donne e gli
uomini a prescindere dalla cittadinanza) si traduce nella veritiera sensazione
di essere circondati sempre e comunque da spie, che prendono il volto o di quei
medici che non si stanno ribellando a questa legge infame o di quei vicini di
casa disposti a rovinare delle vite di persone considerate di serie Z solo
perché sprovviste di un pezzo di carta.

 

Anche la previsione di un
permesso di soggiorno a punti rende bene l’idea di quanto il soggetto migrante
sia da tenere sotto costante osservazione: i suoi comportamenti, le sue abilità
e pure le sue prestazioni economico sociali devono essere quotidianamente
confermate al fine di “guadagnarsi” il diritto di permanenza.

La criminalizzazione delle e dei
migranti appare quindi oggi normata, tanto che si può parlare, come fa
Alessandro Dal Lago, di “stigma legale”. E così anche fenomeni come le “ronde”,
emblema di una sicurezza gestita privatamente e senza regole, diventano incubi
reali nel nostro paese.

La criminalizzazione di queste
persone sembra purtroppo legarsi al considerarli delle non-persone: le/ i migranti vengono infatti considerati
principalmente  forza lavoro e quindi
solo come tali degni di stare nel nostro paese. Raramente si parla di loro come
esseri umani con delle storie di vita da raccontare. E’ dalla Legge Bossi Fini
che il lavoro è LA condizione necessaria per ottenere il permesso di soggiorno,
e in tempi di crisi essa risulta ancor più restrittiva.

Chi comunque ha un regolare
lavoro, per i motivi descritti precedentemente, é esposto a criminalizzazioni
gratuite e ad una forte ricattabilità da parte dei datori di lavoro, che hanno
l’arma del licenziamento dalla loro parte. Nelle loro mani sta infatti la
cessazione delle condizioni che permettono alle cittadine e ai cittadini
stranieri di costruirsi una vita in Italia, di essere considerati persone
appunto. Ecco perché ci poniamo la domanda se l’inasprimento dei controlli in
una fase di contrazione del mercato del lavoro regolare, non sia un modo per
mettere nelle mani dei padroni uno strumento atto a governare nella paura un
mercato del lavoro nero in forte fase espansiva. L’economia informale che è composta
in buona parte da lavoratori stranieri, è il vero luogo di un’insicurezza ben
più reale di quella propinata dai media mainstream e dagli imprenditori della
politica della paura:  l’insicurezza sul
lavoro, nei cantieri, che nel solo 2008 ha fatto 588 vittime compresi i
lavoratori nativi. 

 

La criminalizzazione dello
straniero ci fa anche dimenticare che negli ultimi 10 anni nel mare intorno a
Lampedusa sono morte 40.000 persone, o che gli stupri sulle donne sono commessi
7 volte su 10 da ex fidanzati o mariti o “amici”, quindi da cittadini
italianissimi. O che, ancora, gli stranieri concorrono per un 10% alla
creazione del Pil italiano e che a loro demandiamo la gestione dei nostri
affetti più cari, anziani e bambini.

 

La retorica cattolica della
famiglia, strumento di imposizione politica riguardo la non contrattabilità di
temi che spaziano dalle unioni di fatto alla procreazione assistita, non è
spendibile neanche in riferimento alle e ai migranti. L’ultima legge sui
ricongiungimenti familiari si può affermare neghi il diritto all’unità
famigliare, anche di quelle persone che soggiornano regolarmente – cittadini
comunitari compresi- nel nostro paese. Norme come la possibilità di farsi
raggiungere dai figli maggiorenni solo se questi sono invalidi al 100% o dai
propri genitori solo se ultra 65enni e senza altri figli nel paese di
provenienza, creano un’ulteriore gravissima terra bruciata intorno a loro.

Lo Stato italiano sta facendo di
tutto per far passare la voglia a chi deve emigrare per cercare un futuro
migliore di venire sul nostro territorio, incurante tra l’altro del diritto
internazionale, comunitario e costituzionale che più volte hanno sancito il
principio di uguaglianza tra cittadini e stranieri in tema di libertà
fondamentali e diritti umani.

 

L’aria pesante che si vive in
tutti i CIE presenti sul territorio nazionale che spesso sfocia in episodi di
rabbia, di cui le ultime settimane di rivolta nel CIE di Lampedusa sono solo la
punta di un Iceberg sommerso, la protesta dei migranti a Castelvolturno dopo la
mattanza dei nigeriani crivellati dalle armi della camorra e fatti passare
dalla stampa come trafficanti di droga, ma in realtà ennesime vittime della
guerra tra mafie, ci insegnano come l’esplosioni di conflittualità siano ancora
possibili e soprattutto sia ancora possibile da parte di quei soggetti che più
sono colpiti da leggi barbare e razziali alzare la voce, resistere per
esistere, in un paese che per le condizioni di vita diffuse dovrebbe essere un
vulcano in eruzione, ma dove in realtà tutto tace.

I segni della crisi si sono
appena mostrati e ci interroghiamo, in questo contesto, su quali saranno i
prossimi diritti ad essere sacrificati nel nome della sicurezza da parte di uno
stato sempre più autoritario e repressivo.

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