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Il “pacchetto sicurezza”, gli stranieri e la Costituzione. Prime note

 a cura di: Alessandra Algostino – Prof. associato di Diritto pubblico comparato Università degli Studi di Torino

Il “pacchetto sicurezza” presentato dal Governo il 21 maggio 2008
consta di un decreto-legge (D.L. 23maggio 2008, n. 92, Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica), un disegno di legge (A.S. n. 733,
Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), tre schemi di decreti
legislativi in tema di status degli stranieri (in specie in relazione
al ricongiungimento familiare, alla richiesta di asilo politico,
all’iscrizione anagrafica, all’allontanamento e alla detenzione dei
cittadini comunitari). In questa sede non si intende ricostruire in
maniera organica il contenuto dei vari provvedimenti, ma limitarsi ai
profili delle norme riguardanti gli stranieri che impattano, o, meglio
si può dire, collidono con norme e principi costituzionali.
Innanzitutto, due osservazioni di carattere procedurale, che, peraltro,
inevitabilmente, trascinano con sé considerazioni di carattere
sostanziale inerenti temi cardine del diritto costituzionale, come
forma di governo e forma di stato.
Prima: il contesto sociale nonché la natura delle disposizioni
legittimano l’adozione di un decreto-legge? No, non sussistono quei
«casi straordinari di necessità e d’urgenza» (art. 77 Cost.) che
costituiscono fondamento necessario per l’esercizio da parte del
governo di potere legislativo. Ciò comporta la violazione – come rileva
il giudice costituzionale (sent. n. 171 del 2007) – dell’art. 77 Cost.,
dell’assetto delle fonti normative e, in particolare, delle prerogative
del Parlamento, con ripercussioni sulla forma di governo e sulla
«tutela dei valori e diritti fondamentali».
Seconda osservazione: è opportuno che temi delicati che incidono su
diritti costituzionali come libertà personale, tutela della famiglia,
diritto di asilo, libertà di circolazione e soggiorno, siano adottati
dal potere esecutivo, se pur su delega del Parlamento (e se pur spesso
nei limiti segnati dalle direttive comunitarie)? Non dovrebbe esservi
una discussione e una eventuale convergenza il più ampia possibile? Si
continui la lettura della sentenza della Corte citata: «negli Stati che
s’ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione
della giurisdizione e dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle
norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva
direttamente dal popolo. A questi principi si conforma la nostra
Costituzione laddove stabilisce che «la funzione legislativa è
esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70)». Di nuovo, ad
essere revocate in dubbio sono l’essenza stessa della forma di governo,
parlamentare, e la garanzia dei diritti fondamentali; occorre ricordare
le note parole di Montesquieu sui rischi di assolutismo conseguenti
all’esautoramento del Parlamento?
Quanto ai profili sostanziali emerge prima facie una gross violation
ricorrente: la violazione dell’art. 3 Cost., il principio di
uguaglianza, in correlazione con l’art. 2 Cost., il riconoscimento dei
diritti inviolabili dell’uomo.
Quale ipotesi emblematica si legga l’art. 1, lett. f), del D. L.
92/2008, che inserisce fra le aggravanti, all’art. 61, c. 1, c.p., il
n. 11-bis, la commissione del fatto «da soggetto che si trovi
illegalmente sul territorio nazionale». Le persone umane non sono tutte
uguali di fronte alla legge (penale): lo stesso reato se compiuto da
uno straniero irregolare può comportare un aggravio di pena fino ad un
terzo. L’aggravio di pena non è legato al tipo di reato o alle sue
circostanze, ovvero alla condotta tenuta, ma unicamente alla condizione
personale del soggetto, al suo essere e non al suo fare.
La discriminazione è evidente, ma ad essere attaccato è anche il
concetto in sé di persona umana (e di diritti della persona umana): si
assiste ad un ritorno del diritto per ceti? Esiste un diritto dei
cittadini, un diritto speciale degli stranieri ed un diritto
“specialissimo” degli stranieri irregolari, non un diritto delle
persone umane. È quanto mai attuale l’osservazione di Hannah Arendt (Le
origini del totalitarismo, 1967): «la perdita dei diritti nazionali ha
portato con sé in tutti i casi la perdita dei diritti umani».
Analoghi rilievi si possono muovere all’art. 9 del D.D.L., che
introduce il famigerato reato di immigrazione clandestina, prevedendo
la reclusione da sei mesi a quattro anni dello straniero che entra
illegalmente nel territorio dello Stato, con arresto obbligatorio. A
fronte della sola violazione delle norme che disciplinano l’ingresso e
il soggiorno nel territorio dello Stato si legittima il sacrificio
della libertà personale. Il controllo delle frontiere è titolo
sufficiente in una democrazia per istituzionalizzare e legalizzare la
limitazione di un diritto fondamentale della persona umana? La Corte
costituzionale, pur riconoscendo la presenza di un «interesse generale
di un razionale ed efficiente controllo dell’immigrazione» (sent.
161/2000), non ha mancato di rilevare come «per quanto gli interessi
pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione siano molteplici e
per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza
e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può
risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà
personale» (sent. 105/2001). Il reato di immigrazione clandestina
introduce una irragionevole restrizione della libertà personale e
estrinseca l’idea di una sovranità statale egocentrica e
antidemocratica, contraria allo spirito di una Repubblica che la
Costituzione disegna come democratica, aperta verso l’esterno (si pensi
agli artt. 10 e 11), fondata sulla tutela dei diritti dell’uomo, senza
ulteriori aggettivazioni.
Dello stesso humus culturale e della stessa politica di
criminalizzazione della irregolarità, se non più in generale dei
migranti tout court, è espressione anche l’art. 5 del D.L. 92/2008, che
introduce un reato (punibile con la reclusione da sei mesi a tre anni,
nonché confisca dell’immobile se trattasi del proprietario) per chi
«cede a titolo oneroso un immobile di cui abbia la disponibilità ad un
cittadino straniero irregolarmente soggiornante». Non solo il diritto
alla casa è ristretto al solo cittadino, ma per gli stranieri
irregolari sembra quasi profilarsi un divieto alla casa.
La presenza irregolare di migranti viene assunta come un dato di fatto,
che il diritto considera strutturale, ma si limita ad affrontare in
un’ottica repressiva, attraverso la creazione di un diritto speciale, o
seguendo calcoli di utilità economica (sanatorie e proposte specifiche
per colf e “badanti”). È difficile non dubitare della costituzionalità
e ragionevolezza complessiva di una disciplina che è ispirata puramente
a criteri economicisti, in specie alle leggi della domanda e
dell’offerta di lavoro, per di più nell’ambito di un mercato del lavoro
che non è solo quello legale. Il “pacchetto sicurezza” inasprisce
questa visione riducendo le ipotesi di ricongiungimento familiare,
attraverso l’introduzione di alcuni limiti per il coniuge, i figli
maggiorenni e i genitori, rendendo più difficoltosa la vita a chi
contrae un “matrimonio misto”, in contraddizione fra l’altro con gli
artt. 29 e 30 della Costituzione. Nello stessa direzione si muovono
anche le modifiche alle procedure per richiedere l’asilo, fra le quali
spicca l’eliminazione dell’effetto sospensivo del ricorso
giurisdizionale, con conseguente violazione – come ha già sottolineato
l’UNHCR – dei principi fondamentali del diritto, nonché dell’art. 13
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, che sancisce il diritto ad un ricorso
effettivo, per non citare ex plurimis la ratio dell’art. 10 della
Costituzione.
Infine, ma non ultima, è da citare la violazione dell’art. 3 Cost.
laddove si richiede (schema di decreto legislativo in materia di libera
circolazione dei cittadini comunitari) che i cittadini comunitari
dimostrino per poter soggiornare in Italia di possedere risorse
economiche sufficienti. Non si tratta in realtà di una norma “nuova”
perché già il D. Lgs. 30/2007 (cfr. spec. artt. 7, 9 e 13), adottato in
attuazione della direttiva 2004/38/CE, si riferiva alla disponibilità
di «risorse economiche sufficienti» quale condizione per ottenere e
mantenere il diritto al soggiorno nel territorio nazionale (e la
relativa iscrizione anagrafica) per un periodo superiore a tre mesi. Un
diritto di soggiorno, e una libertà di circolazione, subordinata al
censo? Ma la Costituzione non considera gli ostacoli di ordine
economico-sociale per rimuoverli (art. 3, c. 2)?
È chiara la volontà di escludere gli stranieri dal godimento dei
diritti sociali: già il D. Lgs. 30/2007 (art. 7) si premura di
precisare che il cittadino dell’Unione non deve «diventare un onere a
carico dell’assistenza sociale dello Stato» e deve possedere
un’assicurazione sanitaria o un altro titolo «che copra tutti i rischi
nel territorio nazionale».
Per i cittadini comunitari c’è però anche un passo in avanti verso
l’uguaglianza: possono anche loro essere trattenuti, come i cittadini
extracomunitari, in un centro di permanenza o, meglio, come
ridenominato dal D.L. 92/2008 (art. 9), «centro di identificazione ed
espulsione». È sufficiente per essere destinatari di un provvedimento
di allontanamento, con conseguente possibilità di detenzione, la non
iscrizione anagrafica (o non richiesta della carta di soggiorno) entro
dieci giorni dal trascorrere dei primi tre mesi di presenza in Italia,
le quali, nello schema di decreto legislativo sulla libera circolazione
dei cittadini comunitari, vengono inserite fra i motivi imperativi di
pubblica sicurezza.
Il termine massimo di detenzione è tuttavia differente: 15 giorni per i
cittadini comunitari, mentre, per i cittadini extracomunitari, il DDL
(art. 18) propone di portare il termine massimo sino a 18 mesi
(conformemente peraltro alla dead line della c.d. direttiva rimpatri in
discussione in questi giorni al Parlamento europeo). La possibilità di
detenzione per un anno e sei mesi rende più stridente la collisione con
la garanzia della libertà personale (art. 13 Cost.), più evidenti le
carenze nell’intervento giudiziario, già presenti nell’attuale
disciplina, ma acuite dalle riforme in discussione in specie per le
proroghe successive alla prima (ovvero trascorsi 120 giorni), più
preoccupante ancora la mancanza di una tutela effettiva del diritto di
difesa (art. 24 Cost.).
Più ampiamente, come può essere democratico uno Stato che ad un
generico interesse al controllo delle frontiere sacrifica per 540
giorni la libertà di una persona umana?
Come può essere democratica un’Europa dove la Francia, l’ex patria dei
diritti dell’uomo, presenterà un progetto per un “patto europeo
sull’immigrazione e sull’asilo” dove si sosterrà, secondo le
anticipazione del Financial Times, che «l’Europa ha bisogno dei
migranti per motivi demografici ed economici. Tuttavia, è chiaro che
l’Europa non è in grado di accogliere dignitosamente tutti quelli che
la immaginano come un ’eldorado’. I flussi migratori devono adattarsi
imperativamente alle sue capacità di accoglienza dal punto di vista del
mercato del lavoro, dell’alloggio, dei servizi sanitari, scolastici e
sociali»?
Come si può ragionare di democrazia quando la sicurezza è declinata
unicamente come ordine pubblico, utilizzata per restringere gli spazi
di libertà e non garantire diritti, dimenticando che essa dei diritti
costituisce “semplice” sostrato, che, dal secondo dopoguerra, ha
assunto una accezione sociale, ovvero sicurezza come effettività nel
godimento dei diritti attraverso la garanzia dei diritti sociali?

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